NUOVO MASCHERINO - CIRCOLO DEL CINEMA


programma febbraio 2002 / aprile 2002

Proiezioni al cinema Moretto, piazza Sant'Alessandro, Brescia
alle ore 18.00 / 20.15 / 22.30
Tessera di associazione € 6,20 / Biglietto € 4,13

Il volantino del programma

 

05 febbraio

L'uomo in più Italia, 2001 dur.100min
regia Paolo Sorrentino con Andrea Renzi; Toni Servillo

locandinal'uomo in più

 

(...)

È la storia di due persone che portano lo stesso nome, Antonio Pisapia, ma non si conoscono l'una con l'altra e vivono contemporaneamente tutti i passaggi che portano dal successo alla disfatta personale. Andrea Renzi è un calciatore: gioca in difesa, diventa famoso per un goal fatto in semirovesciata, si infortuna irrimediabilmente pochi giorni dopo l'exploit, vorrebbe fare l'allenatore ma nessuno dimostra di credere alle sue teorie ardite e offensivistiche (teorizza il calcio totale e la difesa alta, alla Zeman). Toni Servillo è un cantante melodico, una sorta di rivale di Fred Bongusto (che viene citato più volte nel film) o di Franco Califano: dedito alla cocaina, si fa incastrare da una minorenne e termina anzitempo una brillante carriera. Il tutto si svolge sul finire degli anni settanta, e alla fine del film le due storie si intersecheranno ma la tragedia è in agguato. È straordinario constatare come un regista esordiente sia riuscito a tenere insieme con grande professionalità una sceneggiatura non facile e due attori veramente straordinari. Ed è veramente notevole come il film sappia alternare momenti divertenti con altri drammatici, rendendo credibile e toccante una storia tutta basata sugli eccessi: era dai tempi di Matarazzo e dei suoi film con Nazzari e la Sanson che non si vedeva un'operazione di questo tipo.

Stefano Della Casa, l'Unità (2/9/2001)

 

12 febbraio

Alla rivoluzione sulla 2 Cavalli Italia, 2001, dur. 80 min
regia Maurizio Sciarra, con Adriano Giannini, Andoni Garcia

 

 

Victor riceve all'alba del 25 aprile 1974 la notizia che la resa del generale Caetano è vicina e che i cannoni fioriscono di garofani rossi. Insieme all'amico italiano Marco (quello della Due Cavalli) con cui divide l'appartamento da studenti prende la strada del Portogallo.
Siamo a Parigi, arrivati a Bordeaux, i due convincono a partire con loro anche Claire, la ex ragazza di Victor, ora sposata e con un figlio. Il terzetto si ricompone come qualche anno anno prima e durante il viaggio c'è tutto il tempo per fare il punto della situazione mentale oltre che stradale, aggirare le frontiere come si aggirano gli ostacoli della vita (una improvvisa responsabilità, uscire dalla situazione di studente fuori sede o di esule, sopravvivere al tedio della vita coniugale) per poi arrivare alla "festa".
Si può capire che un film come Alla rivoluzione sulla due cavalli di Maurizio Sciarra possa colpire (e anche dividere, lo hanno dimostrato le discussioni sorte attorno al conferimento del Pardo d'oro a Locarno 2001) perché sussurra qualcosa che ci insegnavano a scuola, a noi dei paesi democratici e che cioè che la libertà è il bene più grande.
Metterlo in un film è rischioso e ancora di più a proposito di una rivoluzione, però Sciarra aggira l'ostacolo con savoir faire e ci porta nella Lisbona del '74 con un viaggio adatto anche a chi ancora non era nato in quegli anni. La freschezza dei protagonisti è quella misteriosa materia di cui è fatto quasi sempre il cinema, catturata come elemento portante del film: un esordio davvero interessante quello di Adriano Giannini che saetta sguardi di ironia appena più torva del padre (lo ricorda eppure possiamo dimenticarcene), Andoni Gracia giustamente premiato con il Pardo di bronzo a Locarno per rendere credibile la sua ansia di ritono al suo paese non più sotto dittatura e Gwenaëlle Simon ora impegnata nel teatro in Francia.
Non si tratta infatti di compiere un viaggio da Parigi a Lisbona, ma di addentrarsi in un luogo imprecisato della giovinezza dove tutto sembra possibile. Qui si colloca il film. La rivoluzione dei garofani filmata come punto di arrivo non a caso non è quel tripudio che ci si aspetterebbe, ma è vista con una punta di ironia, facendo sbagliare corteo e in fondo anche percorso, così come ha fatto la maggior parte di quella generazione, però il viaggio è stato indimenticabile.
A dare un abbraccio alla giovane generazione di cinema c'è un mito della musica nei panni del poeta, Georges Moustaki e un grande del cinema spagnolo, Francisco (Paco) Rabal, qui al suo ultimo film, scomparso di ritorno da Montreal, il festival che gli rendeva omaggio.

Silvana Silvestri, Cinemazip

19 febbraio

Djomeh Francia, 2000 dur. 94'
regia Hassan Yektapanah con Mahmoud Behraznia

 

 

Djomeh è un ventenne afgano che la lasciato il suo paese per l'Iran. Qui lavora in una fattoria insieme al compatriota Habib.
Ogni mattina accompagna il signor Mahmoud, il suo principale, nel villaggio vicino a ritirare il latte da rivendere.
Ingenuo e sognatore, il ragazzo si innamora di Setareh, la figlia di un commerciante. Ma la rigida morale iraniana non permette un corteggiamento aperto. Lui vorrebbe sposarla e chiede a Mahmoud di aiutarlo.
Scenari desolati e polverosi. Strade sterrate e villaggi punteggiati di abitazioni bianche. Uomini dai visi rugosi e donne avvolte in abiti che nascondono le linee dei corpi.
La campagna collinosa dell'Iran è l'ambientazione scelta da Hassan Yektapanah, per la sua opera prima di cui ha curato regia, sceneggiatura e montaggio.
Al centro della narrazione c'è Djomeh, giovane sensibile e timido che ha lasciato l'Afghanistan dopo una storia d'amore con una donna più grande di lui di dodici anni che ha "disonorato" la sua famiglia.
In Iran, Djomeh lavora duramente nell'allevamento del signor Mahmoud. Con lui, nonostante le differenze culturali e sociali che li separano, riesce a stabilire quel rapporto di confidenza e fiducia che invece manca con il rude conservatore Habib, l'altro iraniano che vive nella fattoria.
A Mahmoud racconta il suo passato e i sogni che vorrebbe realizzare. Al primo posto c'è l'amore, il desiderio di avere accanto qualcuno con cui condividere tutto e in grado di colmare la sua solitudine. Mahmoud ricambia la simpatia del ragazzo ed è colpito dalle sue riflessioni sulle differenze tra la cultura afgana e quella iraniana.
Differenze che appaiono forse impercettibili agli occhi degli occidentali abituati a vedere il mondo arabo come un insieme omogeneo e indistinto, ma che nel film affiorano distinte.
Djomeh in Iran è uno straniero. Il forestiero di cui i bambini del villaggio si prendono gioco e che gli adulti apostrofano con freddezza. Quando si innamora di una ragazza del luogo, il razzismo sottile nei suoi confronti si rivela un ostacolo insormontabile.
Su questi temi si posa lo sguardo delicato di Hassan Yektapanah, un nuovo talento della produzione iraniana che dagli anni Ottanta fino ad oggi ha aperto nuovi territori al cinema d'autore esplorati da registi come Abbas Kiarostami, da Mohsen Makhmalbaf e sua figlia Samira.
Nei loro film, come in Djomeh, la macchina da presa e la recitazione scompaiono per lasciare spazio alla vita quotidiana, ad una realtà frugale ma complessa nei sentimenti che la animano.
Qualcuno ha chiamato "minimalismo neorealista" lo stile di Kiarostami e questa definizione si addice anche a Yektapanah che, non a caso, è stato il suo aiuto regista in Il sapore della ciliegia.
"Kiarostami mi ha insegnato a guardare il mondo e a pensare. Da lui ho imparato a osservare le reazioni della gente in momenti e occasioni diverse. Lavorare con lui è stata un'autentica benedizione", dichiara il regista esordiente che ammette "Non posso e non voglio dire che Djomeh non sia stato influenzato in qualche maniera da lui".
Ad accomunarli è l'oscillazione tra il documentario e la fiction. Entrambi esercitano una critica sottile ma efficace della tradizione islamica e danno vita a personaggi che colpiscono con la forza della loro tenerezza e della melanconia. Diomeh è senz'altro tra questi. Camera d'or al Festival di Cannes 2000

Miriam Tola, Cinemazip

26 febbraio Il nostro Natale Usa, 2001 dur. 82'
regia Abel Ferrara, con Lillo Brancato, Drea De Matteo, Ice T

È la vigilia di Natale. Un padre e una madre di famiglia, lui dominicano lei portoricana, si preparano a festeggiarlo assieme alla loro piccola, tra bambole e alberelli. A quanto si direbbe dalle prime, bellissime, sequenze del film, il loro unico problema è riuscire a procurarsi una bambola introvabile, ambitissima da tutte le bambine. Dietro la rispettabile facciata, però, si nasconde altro: per assicurare una vita agiata alla famigliola, che abita in Central Park, i coniugi trafficano in eroina, che tagliano la sera in un appartamento segreto con la precisione dei farmacisti. Il mestiere è rischioso. Un concorrente negli affari nero e razzista (il rapperattore IceT) rapisce il marito e ricatta la moglie, che deve riuscire a racimolare in poche ore, e a Natale, quanto più denaro possibile per salvare la pelle alla sua metà. A meno che l'uomo non sia un poliziotto, come lascia intendere il "caso" riportato dai telegiornali: l'arresto di due agenti corrotti che (nella realtà) travolse l'amministrazione Dinkins e fece eleggere Rudolph Giuliani sindaco di New York. Tra ricattatore e ricattata si stabilisce, poco a poco, una relazione dai risvolti complessi. Malgrado il criptico titolo originale, "RXmas" (ci sono dentro "raggi X", "Natale" e altro), Abel Ferrara sembra diventato saggio. Con Il nostro Natale torna sui luoghi del delitto di "King of New York" e "Il cattivo tenente" ma per mettere in scena, in modo lineare, la normalità del crimine. Se non sembra fatto per entusiasmare i suoi fan, il film apre una prospettiva inedita nel crimemovie, genere tra i più refrattari a rinnovarsi. Oltre a mantenere intatta una delle migliori doti del regista del Bronx: la capacità di lavorare sugli attori (qui semisconosciuti, ma molto bravi), ricavandone il meglio in lunghe sequenze più vere del vero.

Roberto Nepoti, la Repubblica (28/12/2001)

05 marzo 27 baci perduti Francia/Ger. 2000 dur. 98'
regia Nana Djordiatze, con Shalva Iashvili, Nino Kuchanidze

Una coproduzione tra Germania e Georgia, diretta da una regista georgiana già attrice in patria e che richiama alla memoria, in altro contesto, i girotondi erotici di Renoir e di Ophüls. E' piena estate, in una cittadina situata in qualche punto dell'Europa dell'Est. Sybille, 14enne dalla sensualità già in boccio, giunge nel villaggio per passarvi le vacanze ospite di zia Marta. Sotto i ritmi lenti e le regole immutabili della burocrazia, sonnecchia una pulsione erotica che l'arrivo della ragazzina risveglia in tutti gli abitanti. Il primo giorno Sybille s'innamora di Alexander, vedovo ultraquarantenne, astronomo in un vecchio osservatorio. Mickey, figlio di Alexander e coetaneo della fanciulla, cade a sua volta innamorato della nuova venuta; la quale non lo prende sul serio, ma gli promette cento baci prima che arrivi l'autunno. La corrente elettrica si diffonde producendo altri effetti, come la crisi cardiaca che colpisce un insegnante durante un convegno con l'amante o lo strano incidente che capita a un guardiano notturno. Favola gioiosa e assurda, 27 baci perduti varia in modo piacevolmente originale sull'argomento frivolo ma universale della sessualità, esorcizzandone il demone con allegria contagiosa. Basti dire che il tutto culmina in una proiezione di Emmanuelle, capolavoro del kitsch erotico cinematografico, che porta tutti gli abitanti al culmine dell'eccitazione persuadendo parecchi a tentare di riprodurne, dal vero, i momenti salienti. Resta solo da chiedersi perché Nana abbia voluto introdurre nel film un incongruo contrappunto poetico: vedi l'episodio del capitano francese alla ricerca del Mare.

Roberto Nepoti, la Repubblica (16/6/2001)

12 marzo Tigerland Usa 2001 dur. 100'
regia Joel Schumacher, con Matthew Davis, Colin Farrell

In un campo 17 reclute sono addestrate da un autoritario sergente (Lee Ermey) a diventare veri marine e "killer" prima di andare in Vietnam e scoprire la atrocità della guerra. Ma alla fine impareranno a non avere paura. Con mezzi limitati (pochi soldi, 16 millimetri, macchina a mano, nessun interprete noto), Joel Schumacher ha realizzato con "Tigerland" un'opera molto interessante. Non un film di guerra, ma un film sulla guerra: sulla aggressività che consente e nutre i conflitti bellici, sulla violenza e la de-umanizzazione organizzate in un esercito, sulla volontà di annullare gli avversari anche quando sono soltanto contestatori interni, sulla vanità declamatoria dei patriottismi. La regìa semplice e scabra, la fotografia e l'illuminazione naturalistiche di Matthew Libatique, il soggetto e la sceneggiatura di Ross Klavan che scrive di fatti sperimentati personalmente, rendono il film per qualche verso simile a "Streamers" di Bob Altman, quasi una messa in scena anti-kolossal sul palcoscenico dell'atrocità. Nel 1971 la guerra in Vietnam durava da anni, il cessate il fuoco sarebbe arrivato nel 1973. Il clima di sfiducia, rivolta e scoraggiamento era avvertibile anche nell'esercito americano. Al campo d'addestramento militare specializzato nel preparare ai combattimenti nella giungla detto Tigerland, a Fort Polk in Louisiana, ultima tappa per i soldati prima di venir spediti al fronte, arriva un richiamato del Texas che protesta come protestavano in nome dell'antimilitarismo e contro la guerra migliaia di ragazzi americani, che si fa portatore del No di fronte alle troppe pretese dissennate dell'esercito: e che verrà distrutto fisicamente, psicologicamente, emotivamente, pagando un terribile prezzo per la sua disobbedienza. Si capisce che, in fatto di corsi d'addestramento militare, al massimo livello rimane "Full Metal Jacket" di Stanley Kubrick: ma "Tigerland" ha una grande efficacia. Sembra persino singolare come opera del suo regista: Joel Schumacher, newyorkese, 62 anni, cominciò a lavorare come disegnatore di moda (prima da Henri Bendel poi in una propria boutique e più tardi da Revlon), entrò nel cinema come costumista, diventò regista di film destinati agli spettatori giovani ("St. Elmo' s Fire", "Linea mortale") o al grande mercato ("Il cliente", "Batman Forever", "Flawless"): per lui "Tigerland" è un'esperienza nuova e una ottima riuscita, per gli spettatori contemporanei è una convincente lezione anti-guerra.

Lietta Tornabuoni, La Stampa (4/11/2001)

19 marzo E morì con un falafel un mano Australia 2000 dur. 107'
regia Richard lowenstein, con Romane Bohringer, Noah Taylor

Il felafel è un involtino di pasta contenente verdure condite con yogurt, uno spuntino arabo popolare tra i ragazzi australiani quanto la pizza tra i ragazzi italiani. "E morì con un felafel in mano" di Richard Lowenstein, tratto dal romanzo di John Birmingham (editore Fandango Libri), prodotto anche dall'italiano Domenico Procacci, è uno dei film più folli, divertenti e sezionai dell'ultimo tempo. Viaggio d'un ragazzo tra molte case in cui abita con coetanei paranoici (bancari che vivono in una canadese, finti marines, lesbiche, albini sempre intenti a prendere la tintarella di luna) e fra le diverse metropoli australiane di Brisbane, Melbourne, Sidney, il film è un percorso impensabile attraverso turpiloquio, musica, orrore del matrimonio ("Le conversazioni coniugali durano quanto uno spot pubblicitario alla tv"), stupide anoressiche, gangsters inviati a riscuotere l'affitto arretrato, amori delusi, cerimonie arcaico-rurali, nozioni disordinate e approssimative ma prese alla lettera ed esposte con gravità accademica, fotografie di Dean Martin appese alla parete. Il protagonista senza lavoro e senza prospettive vuol essere scrittore, scrive la storia di uno che si masturbava tanto da innamorarsi della propria mano: la coccolava, la baciava, la vestiva, le dava un nome (Muriel), le parlava, e a un certo punto lei rispose. Battute: "Come definire un uomo che non vuole fare sesso?", "Morto". Dialoghi: "Vuoi sposarmi?", "Non posso, devo uscire". Sentenze: "La tv è l'oppio dei popoli". Le avventure, pazze come nei romanzi di Robbins, di Hunter S.Thompson o di John Irving, diventano per il protagonista una ricerca, l'espressione del desiderio di dare un senso alla vita, all'amore. Il film dalla bellissima musica e dallo stile originale animato da inquadrature e visioni impreviste è ritmata da motti scritti in bianco su cartelli neri: Fare è essere, Le regole del gioco, Adoro l'odore del napalm al mattino, Sa di avant-pop, Contro il sistema. Il cast multinazionale e multiculturale funziona benissimo, insieme con il protagonista Noah Taylor: tra i molti film che tentano di esplorare il Continente Ragazzi, è uno dei più interessanti.

Lietta Tornabuoni, La Stampa (1/12/2001)

 

26 marzo Il voto è segreto Iran/Italia, 2001 dur. 100'
regia Babak Payami, con Nassim Abdi, Cyrus Abidi

Uno dei film più interessanti passati nella selezione ufficiale dell'ultimo Festival di Venezia, premiato con un Leone per la miglior regia, è Il voto è segreto del regista iraniano Babak Payami, coprodotto da Fabrica grazie all'intervento, sempre attento e preciso, di Marco Muller. L'interesse in questo caso, è duplice e riguarda il film, per la messa in scena e la chiave di lettura scelta, in relazione alle pratiche attualmente in voga nel cinema iraniano (Kiarostami, Mackmalbaf), e la particolare storia raccontata che illumina indirettamente e retrospettivamente parte della vicenda che ha definito l'attuale società iraniana. Una coincidenza aiuta a leggere in filigrana il film di Payami. Per una volta cinema e letteratura contribuiscono alla formazione di una esperienza realmente edificante, veramente educativa. Vedere Il voto è segreto avendo in mente le parole con cui lo scrittore Ryszard Kapuscinski descrive, nel libro da poco tradotto in italiano Shah-in Shah, un momento importante nella società iraniana, quella dell'ascesa e della caduta della monarchia dello scià Reza Pahlavi a seguito della rivoluzione Khomeinista del '79, vuol dire cogliere, con un minimo di consapevolezza in più, le molte sfaccettature e le mille differenze che abitano un Paese così complesso e così martoriato dalla storia come l'Iran. In questo senso il libro e il film si completano a vicenda. Il primo fa luce sul recente passato dell'Iran, quello che ha visto l'assurda gestione dell'enorme ricchezza petrolifera dei giacimenti persiani, governata dalle manie di grandezza del tirannico scià Pahlavi, sotto l'ingerenza della longa manu americana, che ha disegnato la Grande Civiltà con quella manciata di decreti noti con il nome di Rivoluzione Bianca, grazie alla quale in pochi anni sono state erette cattedrali che ora giacciono sepolte nel deserto e che hanno arricchito l'entourage dello scià a scapito della popolazione rimasta nella più assoluta povertà sotto la pressione psicologica degli agenti della Savak. Il secondo osservando con caustica ironia, in una commedia dell'assurdo, il presente dell'Iran colto nel momento democratico, quello delle elezioni. Sembra di assistere una commedia beckettiana ambientata su di un'isola del Golfo Persico a poche miglia dalla costa meridionale dell'Iran. Qui, dal cielo, piove, sulla testa di un soldato a guardia di un avamposto desertico in faccia al mare, paracadutata da un aereo, un'urna elettorale, accompagnata a breve distanza dallo sbarco di una flotta di giovani donne, addette governative incaricate di aiutare i cittadini nella corretta espressione di voto. Una di queste, zelante e tutta presa dall'ideologia democratica del libero esercizio di voto, raggiunge l'avamposto militare e con l'aiuto del soldato, incredulo e scettico, compie un viaggio nell'isola tra villaggi semiabbandonati, piccole comunità raccolte intorno a una capo-padrone ed ex centrali elettriche da tempo dismesse, dal tempo, appunto, della rivoluzione khomeinista. Payami apre così una finestra non solo sulla società iraniana, sul suo stato di povertà e arretratezza, ma anche sulle diverse reazioni di un popolo chiamato a realizzare, tra scetticismo e analfabetismo, dopo decenni di dittatura prima e altri di rigida osservanza dei dettami della repubblica islamica khomeinista, una propria idea di democrazia e lo fa attraverso una chiave di lettura che sposa l'assurdo con la commedia on the road, richiamando nella struttura e nel rapporto dei due protagonisti buona parte della tradizione cinematografica americana. Il finale vede un jumbo della compagnia di bandiera atterrare sull'isola per raccogliere l'urna e il funzionario governativo. Pungente metafora sull'idea di un progresso senza mezzi che tenta di avanzare tra le dune del deserto.

Dario Zonta, l'Unità (1/11/2001)

02 aprile

Session 9 Usa, 2001 dur. 100'
regia Brad Anderson, con David Caruso, Peter McMullan


Questa proiezione è stata annullata.

La sofferenza umana, gli esperimenti, il dolore dei malati, le possessioni, gli abusi impregnano l'aria, i corridoi, il buio, il vuoto, i muri di un vecchio ospedale psichiatrico abbandonato, nei pressi di Boston. Una squadra di cinque operai della Hazmat Elimination Co. vince l'appalto per alcuni lavori (da completare in pochissimi giorni), preliminari alla ristrutturazione del manicomio. Lo stress della scadenza, le debolezze psicologiche e i problemi irrisolti dei cinque protagonisti accentuano la vulnerabilità del team e innescano l'orrore. Tra presente e passato. Tra architettura inquietanti e labirinti mentali. Brad Anderson e il suo cast di attori (eccellente la performance di Peter Mullan) costruiscono una suspense densa ed efficacissima, sollecitando il versante emotivo e intellettuale del genere. Un ottimo esempio di "old style" horror che maneggia, con competenza, la pazzia, i luoghi e i corpi.


Enrico Magrelli, Film TV (19/9/2001)

09 aprile Luna rossa Italia, 2001 dur. 116'
regia Antonio Capuano, con Toni Servillo, Licia Maglietta

Pulsioni primarie, carne e sangue senza narrazione. Qualcosa di ancestrale, profondamente radicato in un'area culturale dove la tragedia greca si fonde, da sempre, con la sceneggiata.
Luna rossa non ha deluso: è il capolavoro di Antonio Capuano e meriterebbe, secondo chi scrive, un Leone d'oro che non è frutto di sciovinismo. Tutt'altro. Perché Capuano pratica un cinema che in Italia quasi non esiste, un cinema di passionalità, erotismo e ribellione anarchica, come un Abel Ferrara o un Francis Ford Coppola contaminati. Solo che nel cinema americano la mafia è mito, qui la camorra che spara ai bambini e vende griffe contraffatte non ha nulla di eroico. E' abiezione pura che ti prende allo stomaco.
Ma non c'è il cinema di denuncia della tradizione italiana (Le mani sulla città o Salvatore Giuliano, pur citati dal regista). La traccia profonda di Luna rossa è l'Orestea e il gruppo di attori che dei loro corpi fanno scialo in questa storia vengono tutti giustamente dal teatro. Dell'Orestea, in realtà, resta poco. Oreste, il giovane ultimo rampollo della famiglia, denuncia al giudice i suoi, sterminati anche per sua mano. Tutto si svolge in un flash back confuso e ansimante in un film che si costruisce tutto costretto nella casa-bunker della famiglia. I rapporti tra i suoi membri si delineano attraverso scene brevi in cui manca completamente un punto di vista logico, razionale, spesso neppure si capisce davvero chi sia chi. Se però ci abbandoniamo al flusso sensuale degli omicidi, delle lotte di potere, dei crimini e degli incesti, è fatta. Capuano ci affascina benché ci impedisca di affezionarci ai personaggi e persino di capirne le motivazioni che restano a livello di pulsioni primarie, come schegge impazzite. L'odio e la morte, più che l'amore e il desiderio.
Gli esterni sono ridotti all'osso: un cielo plumbeo e minaccioso in cui corrono cavalli o automobili o tangenziali in una specie di sparizione dell'umano. Ma anche gli interni: più che kitsch sembrano sono ridotti all'elementare di tavoli, letti e sedie come in un ergastolo casalingo mentre da un giradischi strilla beffardo 'A luna rossa me parla e te... a commento dell'ennesimo regolamento di conti.
Alla verità scabra di Vito e gli altri e alla provocatorietà commossa di Pianese Nunzio, il sessantenne Capuano ha aggiunto un respiro epico che traduce la sua rabbia in cinema.

Cristina Paternò, Cinemazip

 

16 aprile

A tempo pieno Francia, 2001 dur. 123'
regia Laurent Cantet, con Aurelien Recoing, Karin Viard


Vincent ha perso il lavoro. Non può dirlo alla moglie o ai figli. Né, tantomeno, al padre. Gli amici non lo possono aiutare, unica soluzione è inventarsi un lavoro falso, che lo porti in giro tra Francia e Svizzera, Ginevra, per la precisione, dove millanta un impiego come consulente dell'ONU. E grazie a questo finto lavoro Vincent riesce anche a farsi prestare soldi dai vecchi amici di infanzia, con la prospettiva di lauti interessi grazie ad azzardati investimenti nei paesi in via di sviluppo. Ma non tutti cadono nel gioco, e non ci cade Jean Michel, losco ma generoso gestore di albergo, che, compresa la tragica situazione, lo coinvolge in una storia di contrabbando.Tutti i nodi alla fine vengono al pettine. La moglie Muriel si accorgerà di tutto, ed il sogno di una vita senza responsabilità, svanirà davanti agli occhi di Vincent.

La domanda che tutti fanno a Laurent Cantet quando lo si intervista è sul rapporto tra Vincent (il protagonista del suo film) e Mr. Romand, un signore di Annecy che per diciotto anni ha condotto una doppia vita, inventandosi un falso lavoro, falsi guadagni, falsi rapporti. Sull'affaire Romand, in Francia, è stato anche scritto un libro, ma la sua notorietà oltralpe si deve soprattutto al fatto che, al termine della sua "esperienza", quando ormai il trucco stava per essere svelato, Mr. Romand ha deciso, pur di salvaguardare il suo segreto, di far fuori moglie, figli e genitori.
Se il film di Cantet dalla storia vera mutua ambientazione (anche qui siamo in piena provincia francese), finto lavoro (entrambi i personaggi si spacciano per consulenti dell'ONU) e i lunghi ed inutili viaggi in macchina, ciò da cui invece si distacca è (oltre al finale) l'aspetto patologico del personaggio. Vincent è un uomo normale, come tutti noi, e tutti noi ci potremmo trovare nella sua situazione.
A tempo pieno è progettualmente una storia nella quale chiunque avrebbe potuto immedesimarsi, perché il problema della "propria realizzazione attraverso il lavoro che si svolge" è un problema globale della società occidentale. Perdere il proprio lavoro, vivere in maniera inadeguata rispetto alle aspettative che l'esterno ci chiede, comporta la necessità di ammettere il proprio fallimento, non solo come lavoratori, ma, in generale, in quanto individui.
Dopo il proletariato che cercava di evolversi raccontatoci in Risorse umane (l'esordio che ha dato notorietà al quarantenne regista francese), Cantet esplora oggi i terrori della piccola borghesia, di un mondo che non riesce ad immaginarsi altro modo di esistere. Vincent è uomo normale, e normale è anche la moglie (Karin Viard), donna gentile, determinata ed attaccata al marito, che dal dramma riesce a trovare la forza per far nascere una nuova storia.
Chi normale non è, invece, è il losco amico di Vincent, Jean Michel, interpretato da Serge Livrozet, mito cisalpino, con un passato in carcere come falsario, editore, ladro, ex galeotto, anarchico (nel maggio '68 era tra quelli che occuparono la Sorbona), filosofo ed autore di saggi con prefazioni di Foucault, lui persona eccezionale che con la sua sola presenza ribadisce il concetto, caro al cinema francese, per cui "le persone normali non hanno niente di eccezionale". Leone dell'anno Venezia 58.

Antonio Pezzetto, Cinemazip

23 aprile

ABC Africa Iran, 2001 dur. 84'
regia Abbas Kiarostami, con Abbas Kiarostami, Seyfolah Samadian


 

Come il suo connazionale e collega Moshen Makhbalbaf, anche Abbas Kiarostami ha portato a Cannes una tematica sociale e internazionalista, non la condizione delle donne in Afghanistan ma quella degli orfani in Uganda: il suo A.B.C. Africa è però un documentario, girato su commissione del programma UWESO che si occupa dell'assistenza dei milioni di bambini (sono attualmente 1.600.000 e diventeranno presto due milioni) che le guerre e soprattutto l'Aids hanno privato di uno o entrambi i genitori.
Finora, dice il fax di invito che il regista filma nella prima inquadratura, 10.000 bambini ugandesi hanno beneficiato dei programmi di assistenza, organizzati attorno a piccoli gruppi resi economicamente autosufficienti e animati da volontari locali: una donna che ha avuto tutta la famiglia sterminata dall'Aids ora si occupa di più di trenta bambini rimasti soli. Kiarostami arriva a Kampala, comincia a filmare dall'aeroporto e dall'auto che lo porta in città, riprende la città dalla finestra della sua camera d'albergo, come un turista qualsiasi. Ha portato due telecamere digitali, il paese gli mette a disposizione la sua scenografia naturale e le sue colorate comparse, l'organizzazione gli fornisce l'auto per i suoi carrelli e camera car e soprattutto la sceneggiatura, i dati e i numeri della tragedia quotidiana. I problemi sono davanti agli occhi di tutti. Cartelloni di propaganda dei preservativi semicensurati. Un vecchio manifesto che ricorda la visita del papa, nel 1993, ma altri e più recenti manifesti cattolici che per risolvere il problema del contagio suggeriscono ai giovani: "Stay a virgin".
E quei bambini di tre o quattro anni nei lettini a gabbia dell'ospedale, cosa hanno fatto, che colpa hanno? E quel corpicino che i genitori portano via in bicicletta, in una scatola di cartone? Kiarostami ha sempre filmato i bambini e sa come fare, anche se questa volta non è in grado di parlargli e deve limitarsi a chinarsi alla loro altezza e mostrare quel che si vede nel display della telacamera. Non fa dell'estetica, non cerca colore e folklore. Anche quel coro scolastico, tutte faccine nere sulle camiciole gialle che cantano per lui agitando le mani, non è una ricercatezza formale, è solo un modo di dire la volontà di vivere e di divertirsi dei bambini di tutto il mondo. E le danze e le musiche tradizionali che egli riprende servono a non fare del pietismo, e a non cedere alla pornografia del dolore. E' una grande tragedia ma qualcosa si può fare. Come quella coppia di austriaci che riparte con lui in aereo: volevano un bambino, hanno deciso di adottarlo e sono venuti qui a prenderselo. Indossa una T shirt con una scritta colorata: ABC. Bisogna ricominciare da lì.

Alberto Farassino, Kataweb